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12/06/2012 |
Categoria:
Notizie
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INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE A MILANO
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Momenti della grande celebrazione
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PROFUMO DI MENTA
p. Alfredo Feretti omi
Dicono che il profumo di menta che ti entra nelle narici quando cammini in un prato nel cuore di una primavera inoltrata, si fissi tra quei ricordi che, quando riaffiorano, li senti ancora dentro di te e intorno a te. Odore buono. Vita buona. Quella sera, il 2 giugno scorso, nel cuore del Parco Nord di Milano, erano centinaia di migliaia, le famiglie da tutto il mondo (si è parlato di 350.000 persone), raccolte nel desiderio di “cantare” la famiglia, di guardarsi semplicemente negli occhi per dire la bellezza e la fatica di essere e fare famiglia. Sono passate da poco le dieci di sera e ci incamminiamo verso l’uscita. O meglio, seguiamo una fiumana umana che con marmocchi addormentati in braccio e altri scatenati dall’euforia di una serata diversa, vanno senza fretta verso i luoghi di appuntamento con i pullman o i mezzi di trasporto pubblici. E’ notte. Attraversiamo un boschetto e poi un grande prato. Non c’è illuminazione. Questo fiume di gente sembra fendere l’erba come una nave fende l’acqua e avanza solenne e sicura mentre la rotta si traccia da sola e una nuova strada si apre. Non c’è disagio nella gente, non c’è protesta per l’assenza di luce. C’è una luna che non vede l’ora di finire i suoi giorni per dirsi piena. Manca poco ma è già così amorevole da darsi tutta a noi. “ La notte sarà chiara come il giorno”. Calpestiamo una distesa impressionante di erba menta (se non fossimo a Milano avrei detto “mentuccia”). E il profumo sale, ti si attacca addosso come l’odore della vita, della giovinezza. Forse l’odore della speranza.
Cosa mi porto in cuore di questa serata passata? Tanta dolcezza, tenerezza, attenzione al concreto. Papa Benedetto XVI ci ha offerto una paternità splendida, struggente e forte, attenta e disponibile. Non c’è stato un susseguirsi i racconti eclatanti, al limite della normalità, non si sono sentite storie troppo forti tanto da stordirci. Si snodava la narrazione della normalità non banale, tutt’altro, ma nobile, composta, austera e piena di speranza. I gesti erano misurati e spontanei come spontanei erano i bambini aggrappati ai papà o alle mamme che parlavano davanti al Papa. Anche il linguaggio sembrava lontano da quella ricercatezza forzata che a volte si ritrova in occasioni così ufficiali. Le domande poste al Papa hanno toccato i temi più semplici e più profondi della vita delle nostre famiglie. Pennellate alle quali sembrava che nemmeno il Papa volesse dare risposte esaustive, quanto offrire piste e stimoli da raccogliere a nostra volta nella responsabilità del fare nella concretezza.
Ai due fidanzati del Madagascar che rivelavano il loro timore del “per sempre” suggeriva: Io penso spesso alle nozze di Cana. Il primo vino è bellissimo: è l’innamoramento. Ma non dura fino alla fine: deve venire un secondo vino, cioè deve fermentare e crescere, maturare. Un amore definitivo che diventi realmente «secondo vino» è più bello, migliore del primo vino. E questo dobbiamo cercare. E qui è importante anche che l’io non sia isolato, l’io e il tu, ma che sia coinvolta anche la comunità della parrocchia, la Chiesa, gli amici. Questo, tutta la personalizzazione giusta, la comunione di vita con altri, con famiglie che si appoggiano l’una all’altra, è molto importante e solo così, in questo coinvolgimento della comunità, degli amici, della Chiesa, della fede, di Dio stesso, cresce un vino che va per sempre. Una bella famiglia greca ha presentato i riflessi della crisi economica sulle famiglie: “La nostra situazione è una tra le tante, - hanno detto - fra milioni di altre. In città la gente gira a testa bassa; nessuno ha più fiducia di nessuno, manca la speranza. Ci sono giorni e notti, Santo Padre, nei quali viene da chiedersi come fare a non perdere la speranza. Cosa può dire la Chiesa a tutta questa gente, a queste persone e famiglie senza più prospettive? E il Papa colpito al cuore da questa franchezza: Che cosa possiamo fare noi? Questa è la mia questione, in questo momento. Io penso che forse gemellaggi tra città, tra famiglie, tra parrocchie, potrebbero aiutare. Noi abbiamo in Europa, adesso, una rete di gemellaggi, ma sono scambi culturali, certo molto buoni e molto utili, ma forse ci vogliono gemellaggi in altro senso: che realmente una famiglia dell’Occidente, dell’Italia, della Germania, della Francia… assuma la responsabilità di aiutare un’altra famiglia. Così anche le parrocchie, le città: che realmente assumano responsabilità, aiutino in senso concreto. E siate sicuri: io e tanti altri preghiamo per voi, e questo pregare non è solo dire parole, ma apre il cuore a Dio e così crea anche creatività nel trovare soluzioni. Speriamo che il Signore ci aiuti, che il Signore vi aiuti sempre! Grazie. Una serata in famiglia nella quale non si sono nascoste anche altre ferite sanguinanti. Una coppia di psicoterapeuti brasiliani ha presentato il dramma delle separazioni e il dolore di coloro che dopo un divorzio si sono risposati: “Alcune di queste coppie di risposati vorrebbero riavvicinarsi alla Chiesa, ma quando si vedono rifiutare i Sacramenti, la loro delusione è grande. Si sentono esclusi, marchiati da un giudizio inappellabile. Queste grandi sofferenze feriscono nel profondo chi ne è coinvolto; lacerazioni che divengono anche parte del mondo, e sono ferite anche nostre, dell'umanità tutta. Santo Padre, sappiamo che queste situazioni e che queste persone stanno molto a cuore alla Chiesa: quali parole e quali segni di speranza possiamo dare loro?” E la risposta, pur confermando il pensiero della Chiesa, era così carica di umana e soprannaturale partecipazione che ci siamo abbracciati sul prato, e con le famiglie semplici (non eravamo tra i vip o nei posti riservati ma tra la gente assetata di vero) ci siamo scambiati sguardi d’intensa approvazione. Ci sentivamo capiti. E poi, quanto a queste persone, dobbiamo di che la Chiesa le ama, ma esse devono vedere e sentire questo amore. Mi sembra un grande compito di una parrocchia, di una comunità cattolica, di fare realmente il possibile perché esse sentano di essere amate, accettate, che non sono «fuori» anche se non possono ricevere l’assoluzione e l’Eucaristia: devono vedere che anche così vivono pienamente nella Chiesa. Forse, se non è possibile l’assoluzione nella Confessione, tuttavia un contatto permanente con un sacerdote, con una guida dell’anima, è molto importante perché possano vedere che sono accompagnati, guidati. Poi è anche molto importante che sentano che l’Eucaristia è vera e partecipata se realmente entrano in comunione con il Corpo di Cristo. Anche senza la ricezione «corporale» del Sacramento, possiamo essere spiritualmente uniti a Cristo nel suo Corpo. E far capire questo è importante. Che realmente trovino la possibilità di vivere una vita di fede, con la Parola di Dio, con la comunione della Chiesa e possano vedere che la loro sofferenza è un dono per la Chiesa, perché servono così a tutti anche per difendere la stabilità dell’amore, del Matrimonio; e che questa sofferenza non è solo un tormento fisico e psichico, ma è anche un soffrire nella comunità della Chiesa per i grandi valori della nostra fede. Penso che la loro sofferenza, se realmente interiormente accettata, sia un dono per la Chiesa. Devono saperlo, che proprio così servono la Chiesa, sono nel cuore della Chiesa. Grazie per il vostro impegno. Mi sembrava straordinariamente bello sentire un Papa dire che anche i divorziati risposati servono la Chiesa, sono nel cuore della Chiesa. Avevo nel cuore il volto di tanti amici che conosco da anni con i quali condivido un lungo percorso: queste parole di Papa Benedetto mi sono sembrate un balsamo rigenerante per il cuore. E dentro di me li ho abbracciati uno a da uno. Tutto questo e molto altro ancora ritornava nella mia mente mentre, calpestando il prato e assaporando l’odore della menta, sorridevo agli amici sconosciuti che camminavano con me contenti di aver toccato un momento di grazia. Tutto così straordinario e tutto così ordinario. La mattina del 3 giugno il cammino si ripresenta come parabola del vivere umano fin dall’alba. Eravamo quasi un milione a camminare in mezzo al verde: Il Signore è il mio pastore, in verdissimi prati mi pasce… Un camminare bello, con tante famiglie, con le solite gag familiari, i dispettucci dei più piccoli, i teneri sostegni e incoraggiamenti delle coppie “giovani da più tempo”, l’incedere forte e deciso dei fanatici del jogging. In tutti la consapevolezza di essere chiamati. Della celebrazione eucaristica finale di quella domenica, affiorano tante emozioni. Ma c’è un quadretto, un piccolo cammeo colto nella folla, sconosciuto a tutti se non ai miei occhi; un ciuffo di vita che ho colto per lasciarlo germogliare nel mio cuore e lì ancora vi rimane come dono. Sono seduto nel settore dei sacerdoti concelebranti (più di un migliaio), davanti al palco papale. Sono nell’ultima fila, ai bordi della strada dove passerà il Papa. Di fronte a me, al di là della strada, ci sono i politici, gli uomini di governo, alcuni parlamentari e senatori, gli amministratori pubblici. Durante il canto del Padre nostro, dietro di me, in quella strada che separa sacerdoti concelebranti e politici, si prepara la piccola processione della persone che saliranno a ricevere la comunione dal S. Padre. E una piccola teoria deliziosa di famiglie di tutto il mondo. Una giovane mamma tra queste, con una bimba per mano, mi guarda e, all’invito di scambiarci un segno di pace, mi dice dolcemente: La paix du Christ. Si avvicina e mi stringe la mano. Bella nella sua compostezza e nella sua franchezza. In quell’istante si avvicina a lei un uomo trafelato e sudato, forse il marito, che le consegna in braccio una bimba in pianto, quasi inconsolabile per l’assenza della mamma. I singhiozzi si acquietano presto e la dolcezza dei tratti della sindrome di down mi contagiano. Bella questa mamma con il suo tesoro in braccio che cammina solenne tra un muro di preti e uno di politici. Mi viene in mente la parabola del buon samaritano. Di fronte alla sofferenza la politica si gira dall’altra parte e forse anch’io, come chiesa non me ne so fare carico seriamente. Ma chi se ne prende cura? Quella mamma è il volto della tenerezza del buon samaritano che è Cristo. Se lo carica sulle spalle e lo porta al più vicino luogo di ristoro. In effetti questa mamma sta andando a ricevere l’Eucaristia. Il “Corpo di Cristo” le dirà il Papa offrendole la comunione. Il “corpo di Cristo” ripete senza parole questa mamma a quella bambina che porta in braccio, offrendole se stessa. E’ l’unico volto dell’amore. C’è una tale struggente bellezza in questo scambio di atti d’amore tra lo Sposo, Cristo, e la Sposa, questa donna, noi, tutta quella folla presente, che m’inchino a chiedere la grazia di capire e penetrare di più il mistero nuziale che porto in me e che è scritto nel dinamismo dei nostri desideri. Quanto sono piccolo di fronte a tanta verità d’amore. La messa è finita. Ritorno per quel prato odoroso della sera precedente. Sogno di coinvolgere tante famiglie in questi gemellaggi di amore, di vedere stringersi legami e relazioni belle, buone, sane, sananti. Ma forse è solo un sogno. Non per questo starò alla finestra a guardare la vita passare senza cogliere ogni occasione. Sono parte di questo mistero nuziale e, mentre inspiro profumo di menta, assaporo odore di vita buona e ripeto: Sì, lo voglio.
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